Dov'è offesa, che io porti il perdono

Su ali d'aquila

Domenica 25 febbraio 2024 • II Domenica di Quaresima


Il vangelo della seconda domenica di Quaresima ci parla di sete e di fame. Non solo una sete e una fame fisica: non viviamo solo di cibo. La sete e la fame che contempliamo è spirituale.

La donna samaritana che Gesù incontra al pozzo ha una sete molto profonda. Ha avuto cinque mariti, va al pozzo nell’ora più calda della giornata per prendere dell’acqua non tanto buona alla fine, fa fatica, suda… insomma nella fatica fisica si rivela la fatica spirituale di questa donna, che non si sente amata e accolta. Gesù la accoglie, le sta vicino, l’ascolta, abbattendo le barriere anche ideologiche che questa donna come tutti gli uomini e le donne del tempo di Gesù avevano. Gesù ha una sete di amore, vuole guidare questa donna a sentirsi veramente amata da Dio. Dio non ha paura di perdere tempo per noi, non ha paura di perdere tempo perché sa che una ferita di qualsiasi genere ha bisogno di tempo. Anzi Dio non ha paura di assumere le nostre ferite per amore nostro sul suo corpo: i segni dei chiodi del crocifisso di San Damiano e il getto di sangue che esce dalle mani di Gesù dice l’amore che Dio ha per tutti noi, nessuno escluso.

Gesù stesso rivela ai suoi discepoli questo amore nell’intermezzo che leggiamo nel vangelo. Mentre i discepoli lo invitano a mangiare, Gesù nel guardare ai campi comprende che la sua ora non è più l’ora della semina, ma l’ora del raccolto l’ora cioè di dare compimento pieno all’attesa di Dio che il popolo aveva. Non bastano più dieci parole per dire che Dio guida il suo popolo, non bastano più delle semplici norme morali: serve invece donare la freschezza di quell’acqua, di quella Vita che sa dissetare la ricerca dell’uomo, il suo desiderio di Dio. E Gesù di fronte alla sua ora non si sottrae: lascia spazio a una azione di vicinanza alla nostra povertà, perché risplenda la vita, l’amore, la pace del cuore che aiuta a costruire la pace.

San Paolo nella sua lettera agli Efesini ci ricorda come una comunità per essere di Cristo deve saper custodire l’unità, la benevolenza, la carità, ma soprattutto la magnanimità e la speranza. La magnanimità per saper guardare sempre in alto, oltre le banali visioni del mondo, che separano, dividono, che sono pronte solo a giudicare e non a costruire. La speranza, invece, perché confida in quel respiro di vita che è il Signore, respiro che anima ogni nostro atto presente perché il futuro sia inebriato di una vera autentica pace, pace che solo il vivere nello Spirito di Cristo può donare.

Signore fa di me uno strumento della tua pace, dove è offesa che io porti perdono, dove c’è una ferita dell’umano, che io sappia portare quell’acqua che ricorda il dono prezioso della vita, il dono prezioso del tuo amore, capace di assumere ogni ferita e trasfigurarla in un atto creatore, in un vero atto di amore.
 

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